La storia di Be All Things: scoperta e costruzione della mia identità non-binaria

Be all things: scoperta e costruzione della mia identità non-binaria

Walking the old path turned me towards death
the ravens woke at dawn
and daylight plumed my skin
then the air was full, simply composed of prey
I cannot stop
I want to be all things
I’ve got to let go
I want to be all things
warriors, newborns, and queens
the lion and the wolf
gnarling at eternal sleep
let it burn
hear it groan
restrained desire
cast it down
I cannot stop
I want to be all things
I’ve got to let go
I want to be all things
I cannot stop
I want to be all things
I’ve got to let go
I want to be all things
(Chelsea Wolfe – Be all things)

Non è compito facile riassumere in poche righe la storia di sé. crescendo ho maturato l’idea che la vita non si componga di una narrazione lineare, ma di momenti che si sovrappongono, come le onde nel mare, le matrioske o le rifrazioni di un caleidoscopio. Posso però provare a tracciare un percorso tra i miei ricordi che aiuti chi legge, e forse anche chi scrive, a comprendere cosa significa per me essere non-binariə.
Per molto tempo non ho dedicato alcuna riflessione a quel che l’identità di genere significasse per me. crescendo, quel che ho appreso dalla società — scuola, dizionari, familiari, amici — era che si nascesse maschi o femmine, che “uomo” e “donna” fossero nomi neutrali che indicavano semplicemente esemplari adulti di esserə umanə natə di uno dei due sessi esistenti. Delle persone intersex sapevo poco o nulla, nominate quasi esclusivamente nel contesto della storia e della letteratura antiche, quasi fossero creature mitologiche. Ho assorbito i pregiudizi della società verso le persone transgender a tal punto che, mentre la consapevolezza del mio orientamento sessuale ed affettivo ha iniziato a svilupparsi verso i primi anni dell’adolescenza, le primissime riflessioni che andassero oltre la presentazione di genere sono arrivate solo intorno alla fine del mio terzo decennio di vita.
Non so cosa abbia scatenato in me la necessità di vederci chiaro; forse fu la lettura di gender trouble di judith butler, che demolì in maniera illuminante molti dei preconcetti che avevo assorbito dalla società. forse fu l’aver navigato, tra i 20 e i 30 anni, le realtà queer di diverse città italiane e britanniche; l’aver conosciuto con crescente apertura mentale persone gender expansive, in cui iniziavo a vedere, sempre di più, qualcosa di me. Forse fu la scoperta della complessità della biologia umana, e delle semplificazioni fuorvianti che fanno da base alla menzogna del rigido binarismo m/f; oppure fu la scoperta che la concezione di identità e ruoli di genere nelle diverse culture umane varia tantissimo nello spazio e nel tempo. forse è stato tutto ciò. Una cosa è certa: guardando indietro alla mia infanzia, al piccolo incubo degli anni delle medie, e a tutto quello che è venuto dopo, mi è apparsa cristallina la difficoltà a sentirmi davvero a mio agio nell’identità di genere tradizionalmente associata al sesso che mi è stato assegnato alla nascita. La sensazione che qualcosa fosse fuori posto è sempre stata lì, in sordina, da quando iniziano a essere sufficientemente nitidi i miei ricordi. la libertà di essere tutto ciò che volevo s’è persa quando la pubertà ha fatto sì che i miei tratti secondari rendessero più feroce la scatola soffocante in cui la società voleva rientrassi perché non disturbassi il suo rassicurante binarismo. Ma un giorno ho iniziato ad ascoltarmi, a ritrovarmi, a ricostruirmi, togliendo uno dopo l’altro gli strati di detriti fatti di menzogne ed etichette che la società m’aveva messo addosso dal secondo in cui avevo catturato il mio primo respiro nel mondo. È un lavoro in divenire, che non so se finirà mai. forse è così per tutti, ma ho il sospetto che ci vorrà tutta la vita per diventare me. Nel frattempo ho scelto un nuovo nome, che non parla di come un medico 34 anni fa ha interpretato i miei genitali, ma che parla di me, di chi sono e di chi voglio essere.