Buongiorno a tuttə
Io mi chiamo Fabri. I miei pronomi sono lui / lei mischiati nella forma parlata mentre nello scritto utilizzo lo schwa o l’asterisco. Sono natə a Roma, ho 25 anni e le mie origini sono peruviane.
Ho fatto coming out come persona non binary nel 2019. Ricordo che mi guardavo spesso allo specchio facendomi molte domande sulla mia identità di genere: mi chiedevo “ma davvero sono un ragazzo cisgender? Perché la società dovesse forzatamente etichettarmi in qualcosa che non sono? Perché riducono le persone al sesso biologico? Perché la gente deve inculcarmi la mascolinità? Perché non è stata data la possibilità di esplorare la mia identità di genere?”
Inizialmente non riuscivo a trovare un nome alla mia identità di genere, ma dopo una serie di ricerche sui social e grazie anche a persone attiviste, sono riuscitə a scoprirlo. Mi definisco una persona gay, transgender (perché non mi riconosco nel genere assegnato alla nascita), agender ( cioè senza generi, fa parte di una delle sfumature del termine ombrello non binary).
Essere una persona agender nella società etero-cis-normata significa trovarsi su un campo di battaglia tutti i giorni perché vivo il binarismo sulla mia pelle: quando le persone mi misgenderano utilizzando i pronomi sbagliati (nel mio caso il maschile), quando sento il maschile generico, i bagni divisi per genere, rinnovare un documento perché leggere i miei deadname (ne ho due) è come se venissi insultatə. Le persone non binary per lo Stato non esistono, infatti non è possibile rinnovare i propri documenti se non si presenta una documentazione medica psichiatrica che attesti il percorso di transizione. Io, per esempio, quando conosco nuove persone tendo a presentarmi come Fabri e il colpo di grazia è proprio quando mi chiedono “Fabri per (deadname)?” e io rispondo in maniera ansiosa “sì”. Purtroppo ho la disforia sociale (cioè il profondo stato di sofferenza che si prova quando una persona “misgendera”, ovvero si rivolge alla persona usando il genere grammaticale relativo al suo sesso di nascita). Ci sono momenti in cui riesco a controllarla ma altre volte no a causa del binarismo in tutti gli aspetti sociali. Sentirmi dire che la mia identità di genere sia una “moda”, subire misgendering, la gente che mi scambia per un ragazzo cis, essere appellatə solo con il pronome maschile, tutti questi aspetti mi causano un forte stato di malessere, rabbia e molte emozioni negative. Ci sono momenti in cui sento la necessità di isolarmi perché quando non riesco a controllare la disforia sociale, e la prima cosa che voglio fare è urlare e di conseguenza scoppio a piangere. In questi momenti preferisco evitare di stare lontanə dalle persone.
Questa è la disforia sociale, per come la vivo io, finché prevarrà il binarismo ovunque, è una condanna che mi porterò tutta la vita.
All’interno della comunità queer, le persone non binarie fanno ancora fatica ad essere visibili. Tuttavia, oggi l’attivismo piano piano sta cambiando e fortunatamente le identità non binarie stanno ottenendo un po’ di visibilità attraverso, per esempio, l’utilizzo del linguaggio inclusivo. Onestamente credo che però non sia sufficiente utilizzare schwa o asterischi per sembrare più “inclusivə” nei confronti delle persone non binary. Bisogna saper elaborare strategie più efficaci se vogliamo davvero cambiare le cose. Credo anche che non siano nemmeno sufficienti le giornate internazionali della nostra visibilità per far capire al mondo e alla comunità in generale che esistiamo, anzi si rischia solo di continuare a fare un attivismo binario in cui prevalgono solo le lettere L e G della sigla. Anche Nella comunità gay, a maggioranza cis, sfortunatamente subisco discriminazione. Quando conosco un ragazzo o un uomo gay cis, per esempio sulle dating app (nonostante sulla mia bio abbia specificato la mia identità di genere),
vengo derisə, di essere:
•una gay “effeminata”,
•che non posso essere gay se non sono uomo,
•di “skopare di più” perché non sono nessuno senza un genere
• che non sono transgender perché non ho iniziato il percorso di transizione,
•un “maschio che si sente donna”,
•“ se ti senti femmina, diventalo”.
Altri insulti sono:
•“sono tutti stupidi nomignoli”
•“basta queste etichette, siamo tutti uguali”
• “per me i binari sono quelli del treno”.
Non ho mai rivelato alla mia famiglia di essere agender perché sono Queer-fobici, feci coming out come persona gay a mia madre a 21 anni e andò malissimo, se le rivelassi la mia identità di genere forse le cose peggiorerebbero. Perciò quando sto giù dai miei devo subire il binarismo a casa, frasi come “devi diventare un ragazzo forte, non sei una femminuccia”. Inoltre, devo stare attentə alla mia espressione di genere, a come mi esprimo perché mia madre purtroppo si fa molte domande su cose che le sembrano “strane”. In queste situazioni mi tocca usare solo il pronome maschile e per significa autolesionarmi l’anima. Fortunatamente ora sto a Ravenna, per motivi di studio e in generale per rifarmi una vita. Finora non avuto problemi con le colleghe con cui parlo di più e una mia coinquilina ma solo riguardo il mio orientamento perché sulla mia identità di genere non ho ancora fatto coming out. Un giorno, però, una mia collega, dopo avermi seguito su instagram leggendo la mia bio e i miei post, un giorno mi chiese quali siano i pronomi che utilizzo. In quel momento volevo urlare di gioia e anche piangere, perché non davvero non me l’aspettavo. Io le ho sorriso e le ho risposti che li mischio nel parlato. Le mie amicizie di Roma sanno della mia identità di genere, inizialmente avevo paura rivelarglielo, ma alla fine non ci sono stati problemi, anzi quando li sento chiamarmi con il mio nome d’elezione e usare i pronomi giusti, dentro di me sento uno stato di euforia di genere incontrollabile. Per me le mie amicizie sono la mia vera famiglia. La distanza da loro mi addolora spesso, ma so che non mi abbandoneranno, perché senza di loro io mi sento debole e meno coraggiosə. Grazie a loro, io sono ancora qui su questo mondo. Mi auguro che un giorno potrò essere finalmente libera, perché dopo la magistrale qui a Ravenna, non so cosa mi aspetterà, ma ora non ci voglio pensare. Voglio continuare a stare qui, a essere me stessə.